Lo sapete che l'Italia è uno dei paesi più ricchi di biodiversità in tutta Europa?
Oltre ad un patrimonio storico, culturale e artistico unico al mondo, dobbiamo essere fieri di erditare anche il territorio più ricco di specie animale e vegetale dell'intero continente.
Non dovrebbe quindi sorprenderci scoprire che le varietà di mandorle, solo sul suolo italiane, sono oltre 600. Eppure ha davvero dell'incredibile!
Sapete quanto sia felice di supportare nel mio piccolo la biodiversità e le produzioni del nostro Bel Paese; per questo, quando sono venuta a conoscenza del progetto adottaunmandorlo, ho voluto saperne di più.
Curiosando sul loro sito, non solo sono finita per adottare un mandorlo, ovvio, che domande, ma ho avuto occasione di intervistare la fondatrice di questo splendido progetto di tutela della nostra biodiversità, Manuela Laganara.
Sono certa che, dopo aver conosciuto più a fondo la mission di AdottaunMandorlo, finirete anche voi per adottare un innesto, un mandorlo o, chissà, supportare un intero campo.
(adottaunalbero.it ha invece pubblicato l'intervista su di me nella loro sezione News)
Manuela, come mai proprio il mandorlo? Cosa ti ha spinto a voler sensibilizzare il consumatore finale sull’importanza di questo enorme patrimonio italiano?
Vengo da un’esperienza professionale quasi ventennale nel mondo della confetteria artigianale e quindi la qualità delle mandorle ha sempre avuto per me un’attenzione particolare. Nell’ultima decina di anni il prodotto artigianale è iniziato a diventare sempre più raro, per via della mancanza di reperimento di materia prima locale e per via di qualche grosso produttore che offre un prodotto molto più economico perché usa mandorle importate. Da 5 anni mi occupo di commercializzazione e trasformazione di mandorle italiane (con quello che è l’unico concept store al mondo interamente dedicato alle mandorle, con format e marchio registrati, ndr) e, cercando di approfondire le dinamiche di coltivazione e trasformazione, ho iniziato a parlare con i produttori: il prodotto locale non è richiesto perché quello importato è più economico e l’intera filiera è in crisi. Quando ho iniziato ad ascoltare le loro storie, fatte di passione, di tradizioni, di famiglia, ho deciso che andava fatto qualcosa per salvarle e custodirle.
Le varietà italiane sono più di 600 al momento. Sembrano tantissime, ma in realtà si sono già perse oltre 100 tipologie. Che cosa ha minacciato maggiormente quest’albero in passato?
Il Bianca, botanico siciliano, ne censì oltre 750 alla fine dell’Ottocento e in realtà i mandorli autoctoni sono piante molto resistenti, hanno bisogno di pochissime cure, conoscono bene il loro territorio e il suo clima e possono fruttificare anche in assenza di irrigazione. La maggiore, e forse unica, minaccia per la mandorlicoltura italiana è il mercato: la grande distribuzione richiede prodotti sempre più economici e quindi i coltivatori preferiscono varietà con rese più alte e più facili da vendere. Molti espiantano le varietà locali per impiantare varietà moderne, conservando solo qualche pianta antica, per puro spirito affettivo, in ricordo di nonni e bisnonni. Altri problemi possono essere la mancanza di una legge su un’etichettatura precisa e con indicazione varietale (per le mele o le pere o i pomodori si fa, per le mandorle ancora no), una normativa che distingua il prodotto italiano autoctono da uno coltivato in Italia, un sistema di analisi e catalogazione genetica univoco che renda verificabile la varietà anche nei prodotti trasformati, ma qui il discorso diventa politico e per il momento abbiamo deciso di focalizzare l’attenzione sul recupero, a tutto il resto penseremo poi.
Ho letto che oggigiorno addirittura le scelte commerciali dell’Unione Europea mettono in pericolo il patrimonio italiano delle mandorle. Puoi raccontarci in che modo?
Sono diverse le disposizioni attuate e non attuate dall’Unione Europea a danno della mandorlicoltura italiana: per citare i due estremi, nel 2007 l’UE ha ben più che raddoppiato i livelli di aflatossine tollerabili alzando da 4 a 10 microgrammi la quantità consentita e una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 2018 ha sancito che gli organismi ottenuti per mutagenesi costituiscono OGM. Con l’attuazione della prima, l’Unione Europea ha deciso di reintrodurre nel mercato europeo le mandorle californiane la cui importazione era stata invece giustamente bloccata appena pochi mesi prima per via degli alti contenuti di aflatossine: si tratta di micotossine prodotte da specie fungine del genere Aspergillus, Fusarium e altri; sono altamente tossiche e ritenute tra le sostanze più cancerogene esistenti. La mancata attuazione della seconda, invece, ancora non limita la produzione e l’importazione delle mandorle anche stavolta californiane ma pure spagnole: si tratta in entrambi i casi di varietà per lo più ottimizzate in laboratorio. Significa che i punti di forza, i caratteri di maggiore resistenza, di più alta produttività, sono stati geneticamente isolati e messi insieme per creare delle varietà ad hoc che possano garantire un prodotto più selezionato e più fruttuoso. Ma sulle nostre tavole finiscono mandorle pari agli OGM.
Che differenza c’è tra mandorle californiane (o estere) e quelle italiane?
Le differenze sono molte. Le mandorle italiane, com’è scontato che sia in natura, sono tutte diverse: fra varietà e varietà è diversa la struttura della pianta, il colore e la forma della foglia, il periodo di fioritura, il colore stesso dei fiori, il periodo di maturazione, sono sicuramente tutte diverse per forma sia del guscio che del seme e, non meno importante, anzi, sono tutte diverse per gusto e potere nutrizionale.
Abbiamo indagato per lo più su alcune siciliane ed alcune pugliesi e, per fare degli esempi, la Tuono è la più ricca di potassio e ferro, la Romana di magnesio, la Fascionello di calcio e selenio. Mentre su tutti i sacchetti in commercio di mandorle californiane c’è lo stesso profilo nutrizionale, sono tutte uguali per forma e dimensione e hanno tutte lo stesso gusto, eppure ufficialmente in California si coltivano e quindi raccolgono 24 varietà diverse. Com’è possibile in natura una tale omologazione? Qualcosa di artificioso c’è… E un’altra delle differenze da non sottovalutare è la differenza culturale: con la mandorla californiana si tratta di business e basta, tutti i coltivatori sono sotto lo stesso marchio, senza storia, senza identità, senza cultura. La mandorla italiana invece permea tutta la nostra tradizione: ogni Regione ha almeno un Prodotto Agroalimentare Tradizionale (PAT) a base di mandorle e il mandorlo è il primo albero da frutto che sia stato coltivato in quella che oggi è l’Italia (perché le sue origini sul territorio risalgono ai tempi dei Romani). Un esempio che mi capita di fare spesso è: dove sono finite le mandorle toscane con cui sono stati fatti i primi cantucci o le mandorle lombarde delle prime sbrisolone? Sono dolci del popolo, è impensabile che fossero fatti con mandorle che era costosissimo far arrivare dalla Puglia o dalla Sicilia.
Parliamo di oltre 600 varietà di mandorli: quante di queste sono al momento protette grazie al vostro progetto?
Purtroppo ancora troppo poche, una ventina. La difficoltà non è neanche il reperimento di piante antiche, perché in molte Regioni hanno dei piani di recupero del germoplasma e della biodiversità in buono stato di avanzamento, quanto piuttosto il riuscire a coinvolgere i coltivatori. I custodi di varietà antiche sono tutti molto anziani e i giovani a cui lasciano il loro patrimonio agricolo sono più interessati alle alte rese e all’incasso immediato che alla tutela della biodiversità e alla sostenibilità delle loro produzioni. Ma qualcuno favorevole a darci ascolto e a fare un percorso diverso inizia ad esserci.
Ho visto che è possibile adottare diverse tipologie di mandorle. In un anno di adozione si ricevono aggiornamenti costanti per essere veramente partecipe del processo produttivo e ricevere infine ben 3 Kg di mandorle del nostro albero. Differenze di gusto? Puoi farci qualche esempio: che gusto aspettarci da una mandorla Cupani o da una Perciasacchi?
Le mandorle antiche hanno in generale un gusto più intenso, perché hanno bisogno di pochissima acqua e quindi tutte le sostanze al loro interno sono più concentrate (difatti, ai fini nutrizionali, a parità di apporto, di mandorle italiane ne bastano molte meno delle 23 consigliate dalle più note strategie di marketing dei colossi stranieri). Cupani e Perciasacchi hanno un simile profilo aromatico che lascia in bocca una leggera nota amarognola, ma delle due la Cupani è un po’ più intensa. Son gli antociani nella buccia a caratterizzare maggiormente il gusto: più la mandorla è scura, più sarà aromatica e con finale amarognolo; più la mandorla è chiara e più sarà dolce e burrosa. Poi ce ne sono anche con note di latte, o leggermente di tostato, di nocciola, di noce. Il panorama è molto vasto ed è divertente assaggiarle per scoprirne le diverse sfumature.
Specificate che i mandorli disponibili in adozione (così come gli innesti e i campi) sono coltivati secondo il metodo biologico: come mai questa scelta? Che vantaggi può portare una coltivazione biologica alla pianta e al coltivatore stesso rispetto a una di tipo intensivo?
Tutelare la biodiversità e fare una scelta diversa dal biologico sarebbe stata prima di tutto una grossa contraddizione. Siamo stati facilitati dal fatto che le aziende le cui piante sono già in adozione sono già pure in possesso delle certificazioni, ma stiamo aiutando quelle che si stanno aggiungendo a fare il medesimo percorso. Quella del mandorlo autoctono è una delle coltivazioni più sostenibili: in adozione ci sono per lo più piante del tutto o semi abbandonate, quando interveniamo ci limitiamo a delle operazioni di potatura che eliminino i rami infruttiferi e non disperdano le risorse della pianta. Ma quando un mandorlo conosce il suo territorio, il suo clima, i venti, l’esposizione, ha già sviluppato nel suo DNA tutte le caratteristiche di resistenza a quel contesto e può fare (e di fatto fa) frutti anche in assenza di irrigazione se non quella proveniente dalle piogge. Quindi, se di base è dannoso per il territorio e l’ecosistema intervenire con fitosanitari e concimazioni chimiche, a questo punto diventa anche inutile. Con le coltivazioni intensive è diverso: lì la produzione deve essere massimizzata perché la quantità del prodotto finale passa in primo piano rispetto alla qualità, allora c’è bisogno di interventi esterni. Un altro punto critico è l’uso dell’acqua: una coltivazione intensiva ne richiede ovviamente di più (le piante sono molto più vicine e non ce la farebbero con i sali minerali del solo terreno: stiamo parlando di piante ogni 2 o 3 metri, a differenza di una pianta ogni 5 o 6 metri di una coltivazione tradizionale in biologico), e non è poca la differenza se per produrre una mandorla californiana ci vogliono 4 litri d’acqua (sì, per ciascuna mandorla) e per una italiana autoctona basta la pioggia! I vantaggi per il produttore sono molteplici: le piante durano più a lungo e possono fare una produzione piena per almeno 30 o 40 anni (a differenza dei soli 15 di una coltivazione intensiva) e quindi sono ridotti alla metà sia i costi di impianto che i periodi di bassa produzione (un mandorlo impiega quasi 4 anni per “entrare a regime”); i costi di gestione in biologico sono più bassi (meno acqua, zero spese di insetticidi, fungicidi, ecc); le mandorle antiche hanno produzioni costanti, mentre le varietà moderne, senza “aiutini”, spesso danno produzioni altalenanti; non ultimo, con un prodotto biologico si accede ad un mercato molto più consapevole e quindi disposto a spendere di più di quanto sia quello della grande distribuzione. E poi anche i contributi nazionali ed europei, i protocolli internazionali in tema di biodiversità, stanno andando nella direzione delle coltivazioni biologiche e sostenibili, quindi il futuro è questo, il futuro è tornare alla tradizione.
Quali sono i vostri progetti futuri?
E per il futuro prevediamo di istituire almeno un campo di varietà antiche in ogni Regione, come stiamo facendo adesso per la Sicilia con il campo di Mazzarino, in cui saranno ripristinate le coltivazioni e quindi le produzioni di varietà tipo la Cupainella, la Chiricupara, la Canicattinisa, la Gaddotta e molte altre dell’areale. Stiamo contemporaneamente facendo una campagna sia informativa che di sensibilizzazione sulle varietà autoctone nel campo dell’alta gastronomia e diversi chef stellati hanno manifestato interesse a poterle inserire nei loro piatti, puntando proprio sull’unicità delle loro note gustolfattive. Col prossimo anno saremo nelle principali piazze italiane e speriamo anche nelle scuole, per approfondire pure gli aspetti nutrizionali. C’è davvero tanto da fare, ma il riscontro che stiamo avendo ci dà una gran carica: la frase di quest’anno per noi è stata “Grazie per quello che state facendo”, è quello che ci siamo sentiti dire più spesso non solo dai produttori, ma ancor più dai privati che ci stanno sostenendo con le loro adozioni e donazioni. Quindi evidentemente era nell’aria il bisogno di sostenere le produzioni italiane.
Siamo sotto Natale e le tavole si riempiono facilmente di frutta secca a fine pasto. Che cosa vorresti dire a chi compra mandorle senza avere la minima idea di cosa si possa celare dietro a questo piccolo frutto?
La frutta secca dovrebbe essere sulle nostre tavole tutto l’anno. Il suggerimento è sempre lo stesso: leggere bene le etichette, approfondire le informazioni e andare più a fondo, magari anche chiamare le aziende e chiedere. Il web è uno strumento preziosissimo ma bisogna saperlo filtrare col giusto spirito critico: quando un produttore scrive sul suo sito che ti tutela pastorizzando le mandorle perché così riduce quasi a zero il rischio di salmonella, non ci si deve fermare a dire “Che bravo produttore, mi elimina la salmonella” ma si deve piuttosto riflettere sul fatto che i suoi mandorli crescano in terreni in cui c’è la salmonella, che il prodotto pastorizzato ha inevitabilmente un apporto nutrizionale ridotto (la pastorizzazione si fa a 75°-85°C, temperature alle quali si distruggono antiossidanti e vitamine e si alterano gli oli riducendo così il potere dei cosiddetti “grassi buoni”), e che quel “quasi a zero” non è “zero”. Ci sono moltissime aziende specializzate in coltivazioni autoctone che fanno spedizioni, basta saper cercare. Perché, mai come in questo periodo storicamente così particolare e travagliato, sostenerci fra di noi è l’unico modo per uscirne fortificati e per garantire alle nuove generazioni un mondo migliore.
Manuela Laganara intervistata da Benedetta Salsi
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